Alluvione Texas: il prezzo dell’inazione e la rivoluzione silenziosa della Terra
Il Texas affoga, e il luglio 2025 si insinua nella memoria collettiva non per le sue previsioni meteorologiche, ma per ciò che queste previsioni hanno rivelato: un fallimento collettivo nella capacità di tradurre la scienza in azione concreta di sopravvivenza.
Sono più di 170 le persone ancora disperse, intere comunità sommerse da fiumi improvvisati, mentre una domanda si diffonde dalle operazioni di soccorso ai vertici governativi: perché, nonostante satelliti e algoritmi sofisticati, continuiamo a fingere che il disastro sia inevitabile?
La risposta non risiede nelle mappe delle alluvioni, ma in quelle che tracciano il volto del territorio.
Mentre Houston diventa il simbolo globale di vulnerabilità, esperti di idrogeologia sussurrano una verità scomoda: ogni disastro è innanzitutto un processo, un lento smantellamento degli equilibri millenari tra uomo e natura, accelerato da scelte politiche miopi e da un’illusione di controllo tecnologico che si rivela sempre più fallace.
L’Europa, e l’Italia in particolare, testimoniano questa stessa tendenza: i dati ufficiali ci parlano di un aumento del 55% dei danni causati da eventi estremi in soli cinque anni, con un costo superiore ai 170 miliardi di euro. La nostra penisola, nel 2024, ha sperimentato un record di 3.600 eventi climatico-estremi, con piogge che hanno scavato ferite profonde tra gli Appennini e le pianure.
Numeri che tradiscono un cortocircuito evidente: disponiamo di strumenti in grado di prevedere con precisione chirurgica le tempeste, eppure facciamo fatica a fermare l’acqua dove essa cade.
La scienza non mente, e i dati dell’ISPRA certificano un’anomalia termica di +1,52°C rispetto alla media, quasi il doppio del globale. Tuttavia, il colpo di frusta vero del collasso climatico non si misura soltanto in gradi, ma in una geografia sempre più mutilata, attraversata da terreni agricoli abbandonati, colline spoglie di deforestazioni selvagge e fiumi imbrigliati in argini che, lontano dall’essere una protezione, trasformano le esondazioni in tsunami.
Ogni goccia che scivola via senza essere assorbita rappresenta un debito accumulato nel nostro futuro, una responsabilità che presto o tardi esigerà il suo conto.
In questo scenario, esistono invece tracce di resilienza, di un modo di convivere con la terra che si sta riappropriando delle sue radici secolari.
In Emilia-Romagna, tra i calanchi che si consumano con il passare delle piogge, si conservano ancora testimonianze di tecniche antiche: terrazzamenti, muretti a secco e boschi di querce e castagni, che con il tempo sono diventati veri e propri artefici di un’armonia possibile tra uomo e natura. Qui, l’acqua non scorre via impazzita, ma danza.
Tecnologia e memoria si incontrano quando osserviamo come gli strumenti moderni e le tecniche ancestrali possano imparare uno dall’altro. Mentre droni e satelliti mappano i danni alle zone alluvionate del Texas in tempo reale, in Calabria gli anziani indicano con orgoglio le antiche cisterne scavate nella roccia delle Sassi di Matera: sistemi di raccolta idrica risalenti al IX secolo, oggi studiati e riproposti da ingegneri e agronomi.
La resilienza, ci viene detto, non è un’app da scaricare, ma un dialogo tra dati e memoria del suolo: ogni ettaro di terra rinaturalizzato può assorbire milioni di litri d’acqua in più ogni anno, contribuendo a ridurre significativamente il rischio di disastri.
Il ruolo della prevenzione, secondo studi come quelli della Banca Mondiale, è chiaro e inoppugnabile: per ogni dollaro investito in azioni di protezione e riqualificazione del territorio, se ne risparmiano sette in costi di ricostruzione.
Tuttavia, il nostro Paese destina a questi scopi appena il 4% dei fondi previsti nel Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza, un paradosso che il fisico climatologo Elena Visconti denuncia come un corto circuito politico e culturale.
L’idea di modificare drasticamente l’uso del suolo per riattivare i sistemi naturali di assorbimento delle acque potrebbe ridurre del 40% la probabilità di alluvioni, ma i tempi richiesti – circa vent’anni – sono chiaramente incompatibili con le prospettive di breve e medio termine imposte dalla politica.
Eppure le soluzioni più efficaci risiedono anche nelle mani di chi lavora in campagna, nei territori resilienti e nelle piante che cuciono tra loro il suolo.
In Veneto, ad esempio, il metodo del soil bioengineering ha dimostrato come piantare salici a reticolo possa trattenere fino a otto tonnellate di terra in ogni ettaro, creando barriere naturali contro l’erosione.
In California, dopo gli incendi devastanti del 2024, sono state modificate geneticamente alcune specie di sequoie per migliorare la resistenza alla siccità, un intervento che, seppur innovativo, si basa sulla consapevolezza che la natura, se ascoltata e rispettata, può adattarsi e rinascere.
Per il Texas, il futuro sembra scritto in questo stesso linguaggio: auto sommerse, supermercati diventati isole e città che si trasformano in arcipelaghi di emergenza sono l’immagine di una serie di scelte umane che continuano a perseguire l’illusione di dominio, anziché imparare a convivere con i cicli naturali.
Tra le pieghe di questo disastro, tra le radici dei salici veneti e i terrazzamenti emiliani, pulsa invece un’intenzione: non controllare la natura, ma riscoprirne il ritmo, le sue pause e le sue ripartenze.
L’alluvione del 2025 non è soltanto un monito, ma un algoritmo in azione: ogni singola goccia che travolge Houston, ogni cisterna che rinasce nel cuore di Matera, ogni radice di salice che rallenta il Piave sono variabili di un’equazione già nota. La vera tecnologia antica, quella che ci permette di navigare in mare aperto tra le tempeste del clima, risiede nelle radici, nelle foreste, nello sguardo di chi ancora sa leggere il linguaggio silenzioso della terra.
La sfida, in definitiva, non consiste nel salvare il pianeta, ma nell’imparare a non annegare nella nostra stessa cecità.
RVSCB